Laura Cherubini
 
     
 
   
  SIMULACRI

di Laura Cherubini

"Anche il comportamento degli uomini e degli animali, proprio per il fatto di essersi adattato all'ambiente circostante, è un'immagine di esso" Konrad Lorenz, L'altra faccia dello specchio

UN'ARCHEOLOGIA DEL PRESENTE

di Laura Cherubini

Roma, 2003

"Quando misi a punto la mia invenzione mi venne l'idea, prima come un semplice argomento sul quale esercitare l'immaginazione, poi come un incredibile progetto, di dare una realtà perpetua alla mia fantasia sentimentale..." Adolfo Bioy Casares, L'invenzione di Morel.

Quando Sigmund Freud volle cercare un'analogia al procedimento analitico e all'interpretazione dei sogni la trovò nell'archeologia e scrisse il commento (che resta uno dei suoi più famosi saggi sull'arte) alla novella di Wilhelm Jensen Gradiva il cui significativo sottotitolo recita "una fantasia pompeiana". Il giovane archeologo Norbert Hanold scopre in un museo di Roma un bassorilievo da cui è attratto al punto da farsi fare un calco in gesso. La lastra rappresenta una giovane donna nell'atto di camminare con insolita movenza. Le attribuisce un nome, Gradiva, "colei che avanza", ma non riesce a capire il perché di tanta attenzione, infatti "il dottor Norbert Hanold, docente di archeologia, non aveva propriamente trovato nel bassorilievo nulla di notevole per la sua scienza". Alla fine di questo viaggio nel tempo, nella memoria, nel sogno e nell'inconscio si scoprirà che una Gradiva contemporanea vive proprio nella città del giovane, è una ragazza tedesca in carne e ossa e ha ispirato la fantasia. La fantasia riesce a far riaffiorare il passato sommerso senza l'aiuto della scienza: "Ciò che questa insegnava era una fredda concezione archeologica, ciò che parlava era un morto linguaggio filologico. Esse non aiutavano per nulla a capire qualche cosa dell'anima, dello spirito, del cuore, o come si voglia dire; e chi di questo avesse sentito in se stesso il bisogno, doveva da solo, soltanto come individuo vivente, venire qui nel caldo silenzio del mezzogiorno fra i monumenti del passato, per guardare e per ascoltare non con gli occhi e con le orecchie del corpo. Allora.i morti si sarebbero levati e Pompei avrebbe ripreso a vivere". Così, mentre sembra che Zoe (vita, questo è il nome della ragazza) somigli alla Gradiva, in realtà è nella Gradiva che Norbert ha riconosciuto Zoe Bertgang. D'altra parte sono molti gli indizi per identificare la vicina di casa e amica d'infanzia: ".pensavo al tuo nome.Perché Bertgang equivale a Gradiva, e significa: 'colei che risplende nel camminare'". La traduzione conferma l'identificazione. Funziona l'analogia tra il meccanismo della rimozione e Pompei, il mondo sepolto dalla cenere e poi dissepolto dallo scavo: "Mi sono detta che avrei ben scavato qualche cosa d'interessante qui anche da sola". La Gradiva agisce da immagine dominante e il piede diviene una sineddoche attiva che al tempo stesso cancella e condensa il ricordo di Zoe. Cesare Musatti ha sottolineato il carattere fortemente visivo dell'intero racconto di Jensen aggiungendo che "del resto l'archeologia stessa è una scienza visiva".

Quella assunta da Benedetta Bonichi è l'ossessione di una tecnica a forte impronta archeologica. Se hai l'ambizione di far parlare la materia non puoi metterle le parole in bocca, ma puoi solo ascoltare, far risuonare il suono interno delle cose, rilevare i rumori, trascrivere le tracce. Far sentire tutto, far sentire la materia è il problema che Benedetta Bonichi si è posta, ed è proprio quel che la tecnica radiografica da lei usata ha sempre evitato di fare. "In preda a una febbre scavatrice, praticamente archeologica, lei sembra accompagnare la voglia dei corpi di scrollarsi di dosso le visioni soggettive per ritrovare, o trovare, il loro essere allo stato puro" ha scritto Marcelle Padovani in un testo su Benedetta Bonichi intitolato Controluce. Si tratta comunque di un'archeologia del presente.

VANITAS

"Non percepite un parallelismo tra i destini degli uomini e quelli delle immagini?" Adolfo Bioy Casares, L'invenzione di Morel

Provocare chi guarda come in un gioco di specchi è all'origine dell'operazione condotta da Benedetta Bonichi. Lo specchio è un elemento importante e ricorrente. D'altra parte l'arte stessa è pratica del rispecchiamento, frequentazione del doppio e la fotografia è specchio della realtà, o si pretende tale. Lo specchio è anche e soprattutto in noi. "Specchio son io, specchio son io; niente parole, niente parole, potrai vedere l'estasi mia, se si fa occhio l'orecchio tuo" (Gialal ad-Din Rumi).

Lo specchio riflette la verità, la conoscenza delle cose, del mondo e del sé. Lo specchio è un simbolo di saggezza e conoscenza, mentre, coperto di polvere, assume il significato dello spirito oscurato dall'ignoranza (a questo proposito pensiamo a quell' Elevage de poussière mirabilmente coltivata e rilevata da Man Ray e da Marcel Duchamp sul Grande Vetro). E' fondamentale ricordare che l'etimologia del termine speculazione, riflessione (ancora lo stesso doppio significato), pensiero, meditazione filosofica, deriva dalla parola latina speculum: all'origine speculare significa osservare i movimenti delle stelle nel cielo attraverso uno specchio. Analogamente sidus, stella, ci ha dato considerazione, che etimologicamente significa guardare l'insieme degli astri. Queste due parole astratte, che riguardano le più alte e complesse operazioni dell'intelletto, hanno le loro radici nello studio del cielo riflesso in uno specchio. Ma lo specchio restituisce della realtà un'immagine rovesciata, la speculazione è un'indiretta conoscenza lunare.

Ed ecco che lo specchio appare, in una delle "radiografie" di Benedetta Bonichi intitolata Donna che si pettina. Questa figura di Benedetta Bonichi è una vanitas, con tutti i suoi attributi. Una vanitas al contrario, cui in un'inversione di segno presiede l'ossessione della realtà. Pettini, collane e altri elementi sembrano provenire dall'immaginario di un grande pittore, Scipione (Gino Bonichi), un avo di Benedetta Bonichi, che lei tuttavia ha riscoperto attraverso un grane studioso, Maurizio Fagiolo dell'Arco, che su Scipione ha scritto pagine indimenticabili. Così la donna tentacolare di La collana di perle è una rielaborazione de La Piovra (1929) e persino, memore del Risveglio della bionda sirena (1929), compare una sirenetta che ridendo mangia pesciolini. Si tratta sempre comunque di rivisitazioni rielaborate e modificate. Il risveglio della bionda sirena più che un tema detta un metodo compositivo: la figura isolata ed evidenziata, circondata da attributi simbolici. Un metodo che con Maurizio Fagiolo, nel corso di una ricerca che stavamo dedicando al quadro, avevamo supposto fosse desunto da trattati di iconologia, forse consultati alla Biblioteca di Palazzo Venezia.

IL CALCO E L'IMPRONTA

"Io e i miei compagni siamo apparenze, siamo un nuovo tipo di fotografie" Adolfo Bioy Casares, L'invenzione di Morel

All'origine di tutti questi lavori c'è sempre una vera radiografia che viene trasferita. Benedetta Bonichi adopera la radiografia come se fosse la fotografia. I materiali di partenza sono pellicole radiografiche. Tutto nasce mettendo i soggetti in posa, superando il problema tecnico delle grandi dimensioni, ottenendo immagini che vengono trasportate al negativo su lastra fotografica e poi stampate su carta emulsionata (avendo cura di far "sentire" le pennellate dell'emulsione).

Questo procedimento sembra dunque teso a svelare una struttura segreta delle cose, come molti procedimenti del surrealismo, dal frottage di Max Ernst al rayograph di Man Ray. Anzi quest'ultima esperienza sembra forse la più vicina, anche per il processo affine a quello radiografico, una immagine ottenuta per contatto. Così, in sintonia con il ready-made di Marcel Duchamp, che consiste nel prelievo e nella pura, semplice e diretta presentazione dell'oggetto, l'interna struttura delle cose viene rivelata. Ecco come Man Ray stesso racconta l' invenzione, nel senso proprio della scoperta di qualcosa che era già implicito nelle premesse, del ready-made: "Sviluppai durante la notte le lastre che avevo impressionato e la sera dopo le stampai...Posai i grandi negativi in vetro su un foglio di carta sensibile che si trovava sul tavolo. Accesi per qualche secondo la lampadina rossa che pendeva dal soffitto, poi sviluppai le negative. Fu durante lo sviluppo che scoprii il procedimento per fare i miei Rayographs, fotografie senza macchina fotografica. Sotto i negativi, fra i fogli di carta da stampa che erano già stati esposti, ce ne era uno vergine. Lo esposi alla luce, insieme a parecchi altri fogli che più tardi sviluppai insieme. Attesi invano per qualche minuto che comparisse l'immagine; poi, rimpiangendo di aver sciupato la carta, posai macchinalmente sul foglio bagnato un piccolo imbuto di vetro, il bicchiere graduato e il termometro. Accesi la luce: sotto i miei occhi prendeva corpo un'immagine. Non si trattava soltanto del semplice contorno degli oggetti, ma questi risultavano deformati e riflessi dai vetri che erano stati in misura maggiore o minore a contatto con la carta; la parte esposta direttamente alla luce spiccava come in rilievo sul fondo nero" (Selfportrait).

Mentre la tecnica radiografica tenta di scarnificare, di giungere "per via di togliere" alla struttura segreta, di rendere trasparente la materia organica del corpo, Benedetta Bonichi predispone una danza intorno alla materia. Per questo si interessa a Francis Bacon e in particolare a una foto che John Deakin gli ha scattato negli anni Cinquanta, immagine nella quale il pittore appare a torso nudo e tiene in mano il corpo di un animale fatto a brani. A questa immagine (a sua volta debitrice del qual quarto di bue di Rembrandt) Benedetta Bonichi ha dedicato un'opera radiografica che svela un'analoga struttura tra il corpo umano e quello animale, tra l'esterno e l'interno. "Ossessionata dall' 'empreinte', l'impronta, già nei suoi primi schizzi, Benedetta indaga sotto le apparenze dell'essere per farne uscire la materia nascosta" (Marcelle Padovani). L'impronta, segno, traccia, ombra, è struttura intrinseca dell'opera di Benedetta Bonichi, sin dall'inizio: "Stranamente -ma non tanto- è lo stesso processo che rivediamo nelle sculture: Benedetta fa apparire in una materia bianca (sogno, ectoplasma, bario, placenta) delle forme che 'appaiono' come umane. E' l'esatto contrario -e quindi la stessa cosa- delle radiografie" scrive Maurizio di Puolo.

Il titolo di questo ciclo di lavori è To see in the dark. "To see in the dark, vedere al buio. Come un gatto, un ladro, un radiologo. Come un cieco per il quale la condanna all'oscurità viene omericamente compensata da una vista, al contempo, più intima e superiore" (Lorella Pagnucco Salvemini). Se si nega la luce, si trovano tanti tipi di buio. E forse nella tenebra si vede qualcosa che in piena luce non si riesce a vedere. Gli occhi nella notte si abituano all'oscurità e vedono oltre le apparenze. Ombre, simulacri, personaggi che appaiono e scompaiono sono le figure che popolano in trasparenza le lastre di Benedetta Bonichi. La prossima volta si tratterà di ritratti: con la magnificenza e l'innocenza dei ritratti dell'Ottocento, con l'assolutezza dei ritratti del Fayum. Questa volta assisteremo a un banchetto, solo che in questo caso Benedetta Bonichi ha usato il digitale invece dell'emulsione fotografica e la tela invece della carta. "Un'opera buffa" la definisce l'artista "un brindisi rituale il cui ospite d'onore è il nulla". Le dimensioni sono quelle del cartellone pubblicitario, ma si tratta di una pubblicità del nulla. Una pubblicità inutile, un anti-pubblicità.

<< Torna Indietro