Giovanni Faccenda
 
     
 
   
  TUTTO PER UNA CERTA SCOMMESSA...

di Giovanni Faccenda

Firenze, 2001

"In ogni momento si può essere sprofondati negli inferi e poi elevati nella luce"

Charles Baudelaire

Fra le molte cose che devo a Maurizio Fagiolo dell'Arco - magister optimus -, vi è anche la conoscenza di Benedetta Bonichi. Accadde, casualmente, proprio ad Arezzo, in una spenta sera di autunno inoltrato, fra un whisky e l'altro sorseggiato nella hall dell'albergo che ospitava la vigilia dell'inaugurazione della mostra di de Chirico, La metafisica del paesaggio. Benedetta era con suo padre, Claudio - uno dei pittori che ammiro e seguo incuriosito da sempre -, sprofondata fra i guanciali del divano e come agitata da un'inquietudine misteriosa che tradiva una più profonda e interna disillusione.

Seppi poi, quando l'orologio segnava ormai le ore più piccole e la conversazione stagnava nella consueta analisi pessimista sull'arte contemporanea, che anche lei, da tempo, era impegnata in qualcosa che "meritava senz'altro di essere visto" - queste le parole pronunciate, con enigmatica espressione, il giorno prima da Fagiolo dell'Arco -, a patto che la riservatissima autrice si fosse finalmente decisa a mostrare a qualcuno gli esiti, a lungo secretati, della sua ricerca.

Ripensandoci ora, non so come, in quella sera di vaporosi esercizi mentali e qualche insospettabile confessione, riuscii a guadagnarmi subito la fiducia di Benedetta, che è, al primo approccio, diffidente per natura, ma il fatto stesso di essermi inventato una specie di scommessa - tu mi fai vedere le cose, io, comunque, le presento in mostra - deve, forse, aver avuto un effetto dirompente, al punto di farle realizzare che, dinnanzi a un patto talmente avventato, forse poteva essere il caso di tentare.

Una sana follia, senz'altro, contribuì a stabilire subito, fra noi, la necessaria fiducia: lei, infatti, si era messa nelle mani di un giovane critico "aspirante allievo di Fagiolo dell'Arco", io, invece, in quelle di una giovane artista, impegnata, in verità, come Artemisia, bruciata dentro come Tamara de Lempicka, capace di spostare ancora più in là l'orizzonte della creazione come Marina Abramovic o Vanessa Beecroft.

Bella sfida per chi, nell'intimo, aveva messo per un attimo da parte il buon senso! Comunque, questo e poco altro ebbi modo di meditare ancora - non so se consciamente o inconsciamente, visto che da buon astemio ero arrivato al terzo bicchierino di whisky - la sera del nostro primo incontro. Qualche mese dopo, tenendo fede alla promessa fatta, mi recai pieno di curiosità nello studio romano di Benedetta, in Piazza di Pietra.

Esistono, per fortuna, ancora straordinarie sorprese. Lo è senz'altro la conoscenza di qualcuno tanto ispirato da far pensare a qualche misterioso sortilegio, persino a un patto, maledetto, con il diavolo, un talento capace di inserirsi improvviso nella disputa artistica quotidiana e seppellire di imbarazzante precarietà ogni dogma o radicata consuetudine.

Questo per me è Benedetta. Oggi come il giorno in cui varcai per la prima volta la soglia del suo studio, stupisco nel vederla perseguire indomita le infinite e oscure possibilità di un esercizio creativo anche difficoltoso, se si tiene conto dell'aspetto tecnico, ma colmo di suggestioni intrinseche, contenuti intimi, robuste indagini analitiche condotte alla radice dell'uomo, fra gli arcani meccanismi che ne disciplinano l'imprevedibile esistenza.

Allora, se ancora è il caso - come sosteneva Klee - di rendere visibile, Benedetta appare indubbiamente fra i pochi, in uno scenario anonimo o speculativo, a seconda dei casi, come si presenta quello contemporaneo, in grado di corroborare alle fondamenta un lessico iconografico germinato da un'analisi dicotomica, ora empirica ora sistematica, comunque tesa a valorizzare in superficie le origini più oscure delle eterogenee manifestazioni comportamentali di un'umanità ideale.

Questo, in estrema sintesi, è certo il pregio più evidente da ascrivere all'attualità di un'artista decisa a scarnificare la configurazione fisica dell'uomo per farne risaltare il suo sostrato più intimo, l'algido tormento esistenziale di chi è alla disperata ricerca di risposte anche solo per sopravvivere, in un atto conoscitivo poliedrico e modulato in più fasi. Al punto che si ha subito agio di realizzare come ogni opera di Benedetta appartenga, in verità, alla costruzione di un mosaico più ampio, a una struttura evidentemente in fieri, che si compone a poco a poco di tessere allegoriche, ora violentate ora accarezzate da una luce insistente ed enigmatica, a tratti persino spirituale, quando arriva a depositarsi in modo ancestrale sulle scheletrite sagome dei vari soggetti rappresentati.

Intanto è la dimensione metafisica di ciò che è o sta per diventare essenza ad affermarsi, con le figure che non sai se affiorano da un archetipo o svaniscono verso un altrove immaginifico, in una condizione comunque nuova e finalmente rivelata, che conserva, endogena, la suggestione estrema del misterioso processo di metamorfosi.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
Lo sguardo fruga d'intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità.

Il mito è qui. Benedetta ci arriva percorrendo, solitaria, l'itinerario che conduce al mistero, guadagnando senza indugi il luogo dove alberga la verità sulla vita ed è custodito l'arcano che in sorte è toccato ad ogni uomo, sospinta da un'urgenza intima e inesauribile, che la accomuna alla dolente riflessione di Pavese "ci saranno altri giorni, altre voci e risvegli. Soffriremo nell'alba". La sorreggerà, comunque, il talento, e lei ci darà cose grandi, se continuerà a cercarsi, a raccontarsi in quelle creature che riescono appena a nasconderla. Perché, anche trasfigurata in altre spoglie, chi infine emerge, nelle sue opere, è sempre lei.

<< Torna Indietro