Achille Bonito Oliva
 
     
 
   
  NOI SIAMO UN SOGNO IN UN SOGNO

di Achille Bonito Oliva

Roma, 2003

Chi ha detto che la "vita è un sogno"? Il portatore di quest'affermazione, noi vogliamo tacerne il nome, evidentemente ha parlato considerandosi in uno stato di veglia. Ha pronunciato la frase stando su una soglia da cui guardare il mondo, qualcosa in un lampante stato di sensatezza gli ha permesso di pensare di stare fuori da questo sogno, in un luogo riparato da ogni irruzione, posto magari in alto, in una postazione innalzata sopra il cumulo di un quotidiano che si forma e sfilaccia fuori da qualsiasi ordito della ragione.

La catena dei fatti si è frantumata ed essi avvengono fuori da qualsiasi logica consequenziale. Allora per colui che ha parlato, è stato necessario correre ai ripari e mettersi al riparo, mediante una dichiarazione che facesse precipitare la vita dentro l'imbuto oscuro del sogno, da cui non esiste riparo ma soltanto la possibilità di assistere quietamente o con angoscia, senza colpo ferire o interferire. Il sogno permette una rappresentazione di superfice, uno scorrimento di immagini che fluiscono tutte secondo la direzione della cifra.

L'arte invece ci dimostra che non è possibile questa temeraria affermazione, che il linguaggio non è uno strumento di rappresentazione ma è esso stesso la rappresentazione. Colui che crea è l'artefice, colui che stabilisce l'artificio, il dio del sogno e il dio che sogna. Per l'artista non esiste la cesura, la porta chiusa o la porta aperta: la cerniera scorre sui propri cardini e l'artista resta sempre con la mano attaccata alla maniglia, non per prudenza ma per meraviglia. Egli scopre che la mano stessa è la maniglia.

Non è l'artista a sognare, è l'arte stessa che sogna il proprio belvedere, che si muove non tanto a scimmiottare il mondo, quanto piuttosto a simulare il movimento e l'arresto, la fuga e la sospensione, insomma il linguaggio, si sente onnipotente e insegue continuamente il suo sogno di potenza. Naturalmente non tutti i sogni sono uguali, molti volano a una altezza imprendibile e altri ancora volano rasoterra oppure in maniera sotterranea. Sogni di ebbrezza e sogni di degradazione ma tutti sublimi. Non tutti i sogni sono alla portata di tutti, e bisogna allora scalare la collina che porta ormai all'arte totale.

Alcuni sono esclusivi e girano di bocca in bocca soltanto tra gli artisti, volano a mezza altezza come un soffio, tra i sognatori di immagini che se li raccontano tra loro guardandosi negli occhi, sussurrandoseli all'orecchio. Altri sogni invece possono liberamente circolare anche tra gli uomini comuni. Partono dalle immagini dell'arte e poi dirottano a una altezza più accessibile, fino a arrivare alle bocche e agli orecchi e anche agli occhi comuni. Questi magari si divulgano a gran voce, qualche volta anche con chiasso, secondo una circolazione eclatante e ammirata.

Talvolta succede anche che il sogno sogna se stesso e allora ci troviamo di fronte all'immagine più indecifrabile, in quanto esso non vuole alcuna lettura esterna a sé, ma desidera dormire su se stesso senza mai venire interrotto o portato in uno stato di veglia. Poi esistono i sogni che volano proprio per essere guardati e sono quelli dell'arte, che assumono la veste del linguaggio visivo. Questi possono correre e scorrere in maniera figurale e astratta, nel profondo degli uomini e sotto i loro piedi.

Benedetta Bonichi capovolge il dettato duchampiano del "ready-made", l'oggetto bello e fatto sottratto alla sua relazione di insieme reale col mondo e spostato nella solitudine della contemplazione estetica. L'artista romana non utilizza un'ottica fenomenologia ("il mondo è quello che è") ma acuisce il suo sguardo d'artista e penetra oltre la pelle dell'oggetto fino ad arrivare al suo scheletro.

Dello scheletro si tratta, infatti. E l'oggetto è il soggetto umano, radiografato nella sua essenziale purezza, depurato di ogni carnalità e nello stesso tempo reintrodotto nelle sue azioni quotidiane come se fosse accompagnato ancora dal corpo. La Bonichi oltrepassa la soglia della vita, si introduce col suo processo creativo in uno stadio successivo reso essenziale da un'esaltata identità scheletrica. Le radiografie ingigantite rappresentano scheletri al lavoro, sesso e Ultima Cena, masturbazione e raccoglimento. Nessuna azione qui è vietata alle radiografie dell'arte che puntano alla fondazione di un territorio ludico, quasi stereofonico, dove la morte viene tenuta a distanza e la vita non si priva di nulla, nemmeno dello stato anoressico che libera l'uomo dal peso gravitazionale e gli consente ogni erotismo e nutrimento.

Lo spettatore entra nello spazio espositivo secondo un metodo dettato dall'artista, quello di un dormiveglia che aziona piani di visione molteplici, sovrapposti e separati insieme. Una sequenza di piani smaterializzati delle radiografie che rinviano alla condizione onirica. Altri piani invece esibiscono materialmente la concretezza di dettagli radiografici nella scena di insieme e rinviano per questo ad una condizione di veglia. Allora è possibile contrapporre all'affermazione di Calderon de La Barca ("La vita è sogno") con la shakespeariana affermazione che "noi siamo un sogno in un sogno".

L'arte diventa la conferma di un doppio incanto che si rinvia tra sé e sé, in maniera speculare, per fondare, come nel caso di Benedetta Bonichi, un ironico labirinto iconografico, che sposta l'identità scheletrica del reale nello spazio della festa. La festa, nel senso antropologico, non conosce alto e basso, destra e sinistra, stato gravitazionale e stato arioso. Conosce l'ironica coesistenza della vita e della morte.

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