ROMA - Tricromia, Italia
 
   
 

EYES

31 ottobre 2008

Se guardo i miei ultimi lavori, vedo un’ombra. Un’ombra in una caverna. Quella caverna è lo sguardo di chi mi guarda, nel quale io non mi ritrovo, nel quale io mi perdo senza specchiarmi, nel quale io mi specchio senza vedermi. Ho smesso di credere, di pensare, di interrogarmi. Smarrita, cerco di riprodurre questo smarrimento. Guardare nel buio inizia ad essere molto doloroso. Un’ombra è apparsa e svanita nella mia vita, come un riflesso nell’occhio. Io ho un occhio pigro, forse è per questo che quel riflesso è ancora lì, come una scheggia di vetro. Certo guarirò. Ma guarire e svanire stranamente mi appaiono ora come due nomi diversi per la medesima cura. Quando ho iniziato ad usare la radiografia, credevo che, svelando, avrei determinato una scelta in chi guardava. Platonicamente, credevo che mostrando che le ombre non erano altro che ombre, chi guardava, capendo, fosse in grado di scegliere tra la finzione e la realtà. Ora, a forza di avanzare, nella caverna ci sono io e vedo gli altri fuori, come ombre lontane, nella luce. Forse è per questo che ho iniziato a vivere di notte. Questo silenzio mi si addice. Questa città che sembra una faccia struccata, alla luce dei lampioni è teneramente patetica, sotto la pioggia che la disfa. Una città molle sotto i piedi con i suoi rumori di tram e di ubriachi e la sera gli uccelli che sghignazzano a migliaia bombardando i passanti per poi fuggire isterici lasciando un manto nauseabondo e sottile su tutto e su tutti . Dove sono i miei fantasmi, le mie tenere divinità, la sfida con chi guarda? Imprigionata nello sguardo ora ci sono io. Il buio lo vedo solo io e non riesco più a vedere oltre.

 

“…Bisogna innanzi tutto che sappiate qual è la natura dell’uomo e quali prove ha sofferto, perché l’antichissima nostra natura non era come l’attuale ma diversa… la forma degli umani era un tutto pieno: la schiena e i fianchi a cerchio, quattro braccia e quattro gambe, due volti del tutto uguali sul collo cilindrico, e una sola testa sui due volti, rivolti in senso opposto…
… ma finalmente Giove pensa e ripensa:” se non erro - dice - ce l’ho l’espediente perché gli uomini, pur continuando ad esistere ma divenuti più deboli, smettano questa tracotanza. Ora li taglierò in due e così saranno più deboli, e nello stesso tempo più utili a noi perché saranno aumentati di numero…
…quando dunque la natura umana fu tagliata in due, ogni parte vogliosa della propria metà, le si attaccava, e gettandosi le braccia intorno, avviticchiandosi l’un l’altra, nella brama di fondersi insieme, morivano di fame e in generale di inazione, perché nulla volevano fare l’una staccata dall’altra…”

Platone – L’Elogio dell’amore – da Il Simposio 387- 367 A.C.



Kamasutra



“La mia mente è imprigionata
Il mio corpo la contempla impotente
Quando si eleva nell’amplesso
Eccola sembra vedere la luce
Ma subito si offusca, si confonde
Precipita nel vuoto di un ego
Spezzato, incompiuto, senza uscita
Solo in due corpi allacciati che si fondono
Vaga libera in spazi sconfinati e profondi
Il viaggio dello spirito attraverso i misteri
Della carne conduce al tempio del
Segreto dell’unico mistero – Il sogno
Di vivere la vita.”




La dolce vita
Che ti scorre dentro
Profuma di incenso
E di assenzio
Inebriata di te
Nella penombra
La mia inquietudine si
Sazia alla sorgente
Che sola mi disseta
Un tempio, la tua
Carne ambrata.



Arruffati come cuccioli che giocano
Ci azzuffiamo allegramente
Di morsi, leccate e capriole
Non riusciamo a saziarci
Danzano i corpi nel silenzio
Mentre implacabile arriva
A dividerci la sera



Come due sugheri nell’onda
Ci lasciamo/ cullare avanti e indietro
Lentamente / Il Mare conosce
I tempi dell’amore



Intrisi di sabbia e di sole / esausti
Avvinghiati immobili
Respiriamo all’unisono.
Un fossile d’ermafrodita
In un deserto di conchiglie bianche





Sei bello quando ad occhi chiusi
Ti sento avvicinare come un’ombra
Sul mio corpo chiaro
Sei la notte che scende su di me
E quando arriva la rugiada
Intrisa di te, io splendo di germogli



Quattro gambe piantate
Su di un unico tronco / si
Dirama a tre braccia e al
Di sopra due teste fuse in un
Bacio che odora di amplesso
Guardateci dunque noi siamo
Un mostro / Uno scherzo di Amore



“…e poi affamati e spersi respireremo uno accanto all’altro come due foglie di un unico ramo, accarezzato da dolci brezze che si gonfieranno all’improvviso in una tempesta d’estate e tu farai di me la tua foglia al vento e i nostri occhi, le nostre bocche, saranno così confuse e perse che quando crolleremo faremo fatica a scegliere quali delle nostre membra terrai per te e per me…”



Intrisa di te
Nella penombra
Ad occhi chiusi ti respiro
Il mondo fuori sconsolato
Impallidisce mentre noi
Brilliamo ardenti
A lume di candele spente



Il tuo corpo è la mia tavola
imbandita
Voglio nutrirmi di te,
Come una leonessa cacciatrice
Sdraiarmi su di te e
Banchettare esausta e
alla fine sazia addormentarmi
sulla tua carcassa



Che dolce tormento amarti
e senza senso
Come quando era sera
e bastava una voce
A strapparmi dai miei giochi
Oggi come ieri



Mi nutro di te senza saziarmi
Di anemoni e menta selvatica stordita
Voglio pascolare sui prati del tuo corpo
Molle di rugiada, pigra e sinuosa
Rannicchiarmi nella tua penombra e
Risvegliarmi muggendo di piacere
E come una giovenca sacra nei pascoli
Del sole abbeverarmi ancora



Pazza la farfalla
Bianca che si
Spezza le ali contro
I vetri
Affamata di luce

 

 A… COME BONICHI. LA METAFORA DELL’ETERNO.

Ho sempre pensato che l’Arte debba giocare con i grandi temi dell’esistenza e, del resto, la vicenda dell’arte contemporanea ci ha dimostrato che dall’orinatoio di Duchamp al taglio di Fontana, la materia per fare arte può essere costituita da qualsiasi cosa. Il motivo è semplice: l’operazione artistica lascia passare l’universale nel particolare perché nessuno assimilerebbe una tela del pittore argentino al fortuito sgarro sul lino o sul cotone del supporto pittorico, così come nessuno penserebbe all’oggetto dell’artista francese come all’avanzo di una discarica. Il gesto volontario e gratuito che ha generato le due opere ne ha fatto la metafora di qualche cosa di diverso, di più alto, ha trasformato quegli oggetti in comunicazione in espressione, diversa dall’indistinto dell’universo.
Bisogna però dire che ci sono dei campi privilegiati, dove la tematica universale emerge e si fa subito evidente. Pensate ad una donna in stato interessante e capirete subito cosa intendo dire. Qui il tema è l’esistenza stessa e tutto quel che accade in quegli splendidi e terribili nove mesi, ha a che fare con i massimi sistemi: con l’essere o il non-essere. In questo periodo ogni evento è sempre grandioso o fatale finché il bambino non nasce. Qui la fisiologia del corpo diviene filosofia del corpo. Da qui si generano tutti quei parametri che poi diverranno le categorie degli universali: il bello, il buono, l’alto il basso, la luce, il buio, il giusto, il bene, il male, il grande, il piccolo.
Certo, una donna che partorisce in un reparto di ostetricia non fa arte, se non a determinate condizioni; così come non la fa una donna che si opera, almeno che non sia l’Orlan che ha elevato (o degradato) il proprio corpo a tavolozza da bisturi. Tuttavia quando, come in quest’ultimo caso, l’evento è isolato dal contesto, gratuito (perché l’artista non ha alcun bisogno di farsi operare) e restituito per una fruizione consapevole, allora si verificano quei presupposti che scardinano l’episodio dalla condizione di casualità per portarlo sul piano della comunicazione espressiva. Qui, infatti, il corpo assume quella funzione di emittente semantica che è sì connaturata con esso, ma che normalmente si disperde e si confonde con altri sistemi linguistici più o meno evoluti. Mi spiego meglio. Che il corpo comunichi non deve essere dimostrato. Basta presentarsi agli altri per fare comunicazione e dire implicitamente: “Eccomi! Sono qui, esisto!”. Non è un messaggio banale. È un messaggio fondamentale, solo che lo consideriamo, ovvio, scontato e quindi inutile nel contesto quotidiano. L’operazione artistica permette di restituirgli la giusta dimensione universale ed esistenziale che poi si modula in mille rivoli che vanno a connotare il soggetto e il suo contesto, perché, è vero: io sono, ma come sono? Il corpo racconta di me senza che io possa farlo tacere. Perché si zittisca bisogna annullarlo sotto un burka e non è detto che si riesca nell’impresa. Non perché qualcuno provi a sollevare il burka, ma perché la comunicazione non verbale passa per i movimenti, per l’atteggiamento della testa, per il modo di camminare, per quello di mettere le mani. Se poi il corpo è esibito o semplicemente mostrato, anche sotto i vestiti, allora nulla di me sarà taciuto: non potrò fare a meno di comunicare il mio essere, il mio modo di essere che è un accidente dell’esistere, un accidente unico ed irripetibile che è in diretto contatto con quell’Assoluto dal quale il mio essere deriva. Fare arte significa sottolineare la relazione fra l’Essere e l’essere, o, come direbbe Hegel, fra l’Io e l’io. In questo rapporto che trafigge tutta la nostra esistenza, che lo si voglia o meno, il corpo ha un ruolo privilegiato perché è il punto d’incontro fra noi stessi e la realtà circostante, fra l’io e il non-io, di hegeliana memoria che, in questo caso, mi pare la più adatta a chiarire il concetto. Il fatto è che quando si mettono in gioco i due elementi dialettici per eccellenza, ossia l’individuo e ciò che è altro da lui, non si può non incappare nella maglia sottile e complessa dell’esistere e dei massimi sistemi che sfociano nel concetto di Assoluto, dove si annida tanto la connotazione trascendente (quella che io preferisco), quanto quella dei paradigmi esistenziali, nella più banale constatazione. Del resto il mondo esiste, per quanto mi riguarda (ma è così per tutti), perché io esisto e quando questa condizione non sarà più vera, tutto finirà con essa; almeno di non credere nello spalancarsi di un’altra dimensione di cui nulla sappiamo. Ma non è questo il punto da discutere qui. Quel che interessa sottolineare, invece, è che quando si utilizza il corpo per esprimersi (e la danza non fa eccezione), ci si orienta necessariamente verso le radici stesse dell’arte, che sono rivolte verso il cielo, come l’albero del XII trionfo dei Tarocchi, L’Impiccato. Benedetta Bonichi lo sa, e per questo le sue opere sono un inno all’arte. A… come Bonichi, che con l’arte s’identifica profondamente. Benedetta (nome omen) non si accontenta dell’apparenza delle cose, lei vede la verità delle condizione umana, la sua fragilità, che è pure la sua grandezza. La sua ultima opera, il Cristo crocifisso, sembra un’immensa radiografia dell’umanità per scoprirne gli incommensurabili dolori che si sono succeduti nei millenni. La testa, che è una citazione da Velázquez, si reclina sotto il peso di quest’infinito patire fatto di grida, di lamenti, di sommessi sospiri, ma anche d’inesauribile dolcezza, di vita e di grande pietà. L’arte di Benedetta, perciò, conosce la speranza (e forse non lo sa nemmeno) perché quel nero, che ricopre la sua grande tela (la tela dello zio “Scipione”, il più grande pittore della Scuola romana), non è funereo, ma è il vero colore della nigredo, composto da tutte le tinte dell’iride, come un raggio di sole così saturo di luce da essere denso e cupo. Se ci si avvicina, infatti, si avrà la sorpresa di riconoscere i verdi, i rossi, i gialli e gli azzurri che paiono i riflessi impercettibili delle penne del corvo alchimistico. In mezzo a questo colore, che contiene tutte le forme, c’è lo scoppio del bianco che prelude alla rinascita ed alla resurrezione, complemento naturale della sofferenza di un dio che si è fatto uomo fra gli uomini. È il bianco delle ossa secche del celebre episodio di Ezechiele (XXXVII, 9-10), quando il profeta racconta dei venti che vennero a soffiarvi sopra per farle rinascere. Questo Cristo di Benedetta, è l’uomo dopo il Giudizio che recupera la sua carne nel corpo di gloria ormai eterno ed incorruttibile perché qui gli estremi dell’Assoluto si rincorrono e si toccano. La morte è preludio alla vita e il non-essere è il principio dell’essere, mentre l’Essere è da sempre. Tutto questo esprime Benedetta nella sua ultima opera che è la più chiara declinazione sulla tematica dell’uomo che, da sempre, ha affrontato con la sua arte. Una tematica che parte da lontano e che oggi è la storia complessa di un’artista che rinnova il linguaggio dell’espressione contemporanea. Benedetta non è la sola ad aver utilizzato lo scheletro come mezzo espressivo. Nel contemporaneo possiamo ricordare Gligorov e Delvaux e, prima di loro, Ensor, ma ancora prima, la lunga tradizione della Danza della Morte e del Giudizio finale. Tuttavia, l’opera di Benedetta si rivela come una novità assoluta densa di storia e di sapienza artistica. Qui lo scheletro è il reperto archeologico di un’esistenza ancora presente: è antico e contemporaneo insieme. Le opere di Benedetta sono colte, senza ostentarlo, così com’è lei. La svolta è nel 1997 quando dai primi esperimenti nascerà Il bacio, pensato e schizzato allora, per essere realizzato nel 2000. L’opera è ectoplasmica. Piena di vita e del suo contrario. Spietata e grande come gli amanti sezionati da Leonardo in uno dei più inquietanti disegni della collezione Windsor. Anatomia del coito potrebbe intitolarsi il disegno leonardesco. Ben più poetica l’opera di Benedetta dove, ad abbracciarsi, sono gli amanti di tutte le epoche. Archeologia dell’amore, come gli amanti di Pompei, fermati in un eterno amplesso, come i coniugi di Vulci stretti nell’alcova che è diventata il coperchio del loro sarcofago, ora conservato a Boston. Il tema dell’amore e quello dell’archeologia, ricorrono nell’opera di Benedetta, come due fili che si annodano per tessere la tela dell’arte. Un’archeologia che si sposa con il mito e ti permette di trovare reperti insperati come la Donna che si pettina, forse Elena di Troia che si faceva bella in attesa d’incontrare Schliemann. La Sirena, invece, si strugge nell’aspettare Andersen e diviene reperto della fantasia, tanto improbabile quanto evidente come La collana di perle che è la radiografia di Scilla, così come l’immaginavano i Greci o, comunque, come gli archeologi pensano fosse rappresentata nei gruppi marmorei (si pensi a Sperlonga) che narravano le imprese d’Ulisse. L’amore è l’altro estremo della poetica di Benedetta Bonichi. Un amore che, in apparenza, pare negato dall’evidenza, ma che in realtà è sottolineato dall’evidenza, come quando si aumenta il contrasto per dare risalto a qualcosa. Benedetta crea un cortocircuito mettendo insieme la vita e la morte e obbligandole a convivere come nello Stabat Mater, il video che è un inno alla vita attraverso il suo contrario. La modella che accarezza se stessa, si ama. Ama la vita, ama l’amore, ma i suoi gesti sono “ripresi” in una sequenza di radiografie a bassissima emissione. Il risultato è sconcertante. È come vedere l’alba e il tramonto insieme senza sapere più dove inizia l’una e finisce l’altro e la musica gioca un ruolo primario perché lo Stabat Mater fa emergere la profonda sacralità di quel che di più sacro esiste: il corpo.
La metafora dell’eterno.

                                                                                                           Marco Bussagli




Il sogno delle ossa

Aforismi ispirati dalle immagini di Benedetta Bonichi

Tiziano Scarpa



Dunque moriremo, per quanto possa sembrare impossibile, detto così, mentre pensavamo ad altro. E invece ecco che il pensiero viene strattonato da una frase mortale e trascinato a pensare alla propria morte, come una testa presa per i capelli e ficcata dentro la tazza del water, costretta a specchiarsi in una fogna.

Dunque moriremo. L’assillo di sottofondo, il basso continuo del pensiero. La struttura del pensiero. Lo scheletro del pensiero che scopa con la propria morte, che abbraccia spigolosamente la nuda consapevolezza di dover morire.

Non avremo organi per godere della nostra morte. Non avremo muscoli né tendini né terminazioni nervose né pelle né ghiandole.

Ciò che hai appena scritto è ingiusto. Non essere ingeneroso verso gli scheletri: essi sono vivi, uno di loro è dentro di te, sei tu. Le ossa ti consentono di fare di te stesso un’architettura, di costruire ponti, arcate, torri con il tuo corpo e quello della tua amante.

Immaginare corpi umani disossati, vivi, amalgamati in amplessi, accoppiamenti, abbracci, annodature molli di gambe esauste e colli senza nerbo. Flosci molluschi che si abbattono viscosamente uno addosso all’altro, senza poter fare leva su nulla. Slanci accasciati, languori sfatti dove solo le palpebre e la lingua riescono a palpitare.

Lo scheletro è asessuato. È la dimostrazione che i nostri organi sessuali sono una costruzione precaria, avventizia, onirica. Il sesso è un sogno del corpo.

L’osso del sesso, l’osso del pene, ossessione viriloide, utopia machista. Ma è proprio la mancanza di osso a fondare il pene, organo ambivalente, indeciso, pendolare fra abbattimento e lievitazione, fra morbidezza e calcificazione.

Fai l’amore, ti puntelli sulle tue ossa, senza rendertene conto. Il tuo scheletro non ha terminazioni nervose, non ha parti senzienti, è escluso dal pandemonio di sensazioni dell’accoppiamento.

La medicina antica credeva che lo sperma provenisse dal midollo spinale. Per i maschi l’orgasmo era uno svuotamento della parte più intima, l’amore era una termite che scavava nella trave portante della casa. Le donne prosciugavano il midollo dei maschi, rendevano cava la colonna che li sorregge.

In un racconto di Rubem Fonseca, un uomo è affascinato dalle ossa della sua amante. Ama intensamente le sue clavicole, le sue rotule, i gomiti, i malleoli, tutti quei punti dove le ossa affiorano sotto la pelle, appena foderate da una pellicola dermica. Ha per loro un’attrazione per nulla morbosa: semplicemente, gli piace saggiarle con i denti, stringendole delicatamente fra mandibola e mascella.

Consideriamo questo bacio: denti che mordono dolcemente un osso, una faccenda che riguarda esclusivamente le parti più dure di due corpi. Saggiare la consistenza fondamentale dell’umano, assaporarne l’essenza sassosa.

“Non si potrà più udire nel vostro sepolcro di marmo il mio canto; allora solo i vermi tenteranno quella verginità che a lungo avete preservata, e il vostro strano Onore sarà mutato in polvere, tutta la mia lussuria trasformata in cenere. Certo la tomba è un luogo intimo e bello, ma dubito che alcuno vi voglia fare all’amore. Dunque… finché possiamo godiamoci il piacere.” Andrew Marvell, Alla sua amante ritrosa.

Per potenziare la vita è necessario sbandierare la morte. Mortificarsi, per vivificare? Immaginarsi morti, per riuscire ad essere vivi. È la strategia del seduttore per convincere la sua bella indecisa. Agitare il banale spauracchio della morte, per aizzare a un’esistenza più piena. E se invece avesse ragione lo spauracchio, e la vera pienezza fosse lì? Se fossero solo i morti a godere a pieno della vita, proprio perché non la posseggono più?

Le immagini sono morte. Mi capita di eccitarmi per delle immagini morte. La pornografia è un’immagine morta che fa l’amore attraverso la mia contemplazione.

Un impresario di nome Pierre Woodman ha girato il mondo convincendo decine di ragazze a diventare attrici porno. Ha filmato i primi incontri, tutti uguali. Intervista, proposta esplicita, denudamento, rapporto sessuale con lui. Ora sono disponibili in Rete. Il contatore di ciascun video arriva a cifre vertiginose: sono state viste e riviste milioni di volte. L’immagine morta di Pierre Woodman continua incessantemente a scopare negli occhi di chi la guarda.

Lo scheletro è sacro. Costringerlo ad assumere pose oscene è una profanazione. Ma lo scheletro è anonimo. Dunque la vera profanazione riguarda la parte di noi che non ha a che fare con la nostra l’identità.

Che cosa succederebbe se qualcuno fotografasse volti di morti, immagini rubate dalle lapidi di un cimitero, per poi utilizzarle in sostituzione delle facce di attori e attrici porno impegnati in atti sessuali? Probabile rivolta dei parenti dei defunti, azioni legali. Ma gli stessi parenti non riconoscerebbero gli scheletri dei propri cari utilizzati per un’orgia postuma. E forse, anche se lo sapessero, potrebbero considerarlo uno strano atto di pietà verso i loro morti.

I loro scheletri crollarono durante l’amplesso. A terra si ammonticchiò una catasta d’ossa che non per questo smise di accoppiarsi. A differenza degli umani di carne che cercavano la fusione orgasmica, i due amanti ossuti raggiunsero tutt’altro tipo di indistinzione. Il loro piacere culminò in una scarica di lucidità, che redistribuì combinatoriamente le loro ossa: una tibia di lui si saldò a una costola di lei, un’ulna cadde dentro un’orbita, mazzetti di falangi si infilarono negli anelli delle vertebre, le quattro scapole si disposero di taglio, come pinne, fino ad assemblare una specie di animale preistorico, o un batiscafo, forse, un’astronave.

Come impersonare il proprio amore? Senza giunture, privi di colle sinoviali e attaccature cartilaginose che permettessero loro di snodarsi, gli scheletri erano costretti a restare immobili, bloccati in posizioni statuarie. Erano amanti con una sola possibilità, un’unica postura. Quale atteggiamento scegliere, avendone a disposizione soltanto uno? In piedi, fianco a fianco, tenendosi per mano, con i teschi ruotati di lato per guardare la loro assenza d’occhi, orbite nelle orbite?

Gli amanti scheletrici volevano mostrare per sempre al mondo il proprio amore in una forma che non potesse essere confusa con una tenerezza qualsiasi, o con del semplice affetto. Dopo lunghi tentennamenti avevano deciso di assumere pose inequivocabili, le posizioni dell’amore sessuato. E tuttavia, ora che si trovavano paralizzati in un kamasutra definitivo, soffrivano la mancanza di qualche cosa che desse testimonianza anche dei loro sentimenti. In quell’istante l’amore disperò di loro ed essi crollarono in un mucchietto d’ossa.

Lasciare scritta nel testamento la volontà che il proprio scheletro venga esposto in pose oscene. Possibilmente trovando qualche complice. Un’amante sufficientemente illusa da pensare che la sua passione sia così speciale da meritare di essere perpetuata anche dopo la morte. O un buontempone sconosciuto, con cui organizzare un’orgia di ossa. Magari anche qualche amico, con il quale da vivi si sarebbe provato imbarazzo anche solo a entrare insieme in un cesso pubblico per fare pipì. Diventare ardimentosi dopo il decesso, trovare il coraggio di realizzare da morti ciò che non si è osato nemmeno immaginare quando si era vivi.


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